CERCARE IL TUO VOLTO
Cercare il tuo volto
mentre affiorano le ombre.
“Il tuo volto, Signore, io cerco”.
E se mi figuro
che mi cammini accanto,
d’improvviso il cosmico vuoto
mi risucchia.
E sono solo.
E per ogni stilla di male
il demone m’assale
dell’incertezza.
E mi do pena di ieri
che non sarà domani
e non è oggi.
Di ogni istante che più non ritorna.
Dei tuoi sorrisi che il vento ha disperso.
Dei volti che svaniscono nel gorgo.
Del tuo volto, Signore,
che io cerco.
(Gianni Antonio Palumbo)
Ho sempre intensamente amato il salmo 26 di David, in particolare il passaggio in cui si dice: “Di te ha detto il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto, Signore, io cerco”.
La vera solitudine, quella che conduce alla disperazione, si verifica, a nostro avviso, proprio nel momento in cui quel volto è offuscato dalla ragione, dalla constatazione dell’ineluttabilità del Male (ma il Male è davvero tale? ineluttabile), dalla sensazione che – nella partita del dare e dell’avere cui la vita sempre soggiace – il bilancio sia in perdita.
Sinché si trova la forza di perpetuare la famosa scommessa di Pascal, il senso di vuoto non può attanagliare sino a mozzare il respiro e del resto, come dice David, “Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura”. La sventura stessa, sino a quando la ricerca di quel volto non appare un’insensata quête da cavalieri erranti, è riscattata dalla speranza che in una dimensione futura ciò che si è perduto potrà essere ritrovato al pari della dramma del vangelo di Luca, nemmeno si fosse rifugiato tra i valloni della Luna. Allora ha senso anche il sacrificio generoso come quello di Dietrich Bonhoeffer. La pietra di David che non raggiunge Golia eppure non cade invano, neanche quando – come scrisse il teologo – “La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici”. L’origine, dunque, di ogni frustrazione deriva proprio dal momento in cui quel volto – come la visione, terrena, cui alludeva Montale in Cigola la carrucola del pozzo – è ridonato “all’atro fondo” di un abisso in cui l’unica certezza è il Nulla.
L’origine di tutte le fragilità è lì, nella perdita, nel silenzio del Sacro, per cui l’uomo non riesce più ad affermare con fiducia: “Se contro di me si accampa un esercito, / il mio cuore non teme”. Perché il cuore trema a un messaggio che tarda ad arrivare, a un desiderio di autoaffermazione che resta insoddisfatto, alla difficoltà nello stabilire relazioni durature o nel destare attrazione nell’altro. Si è scavata una voragine e il risultato è che ciascuno attribuisce le scaturigini del disgusto che sente nel cuore al nemico che di volta in volta si sarà scelto: la scienza, il clero, i migranti, il diverso per religione, orientamento sentimentale e idee politiche.
Siamo inondati da elementi che alludono al Sacro, ora persino su social come tik tok, eppure la Fede, quella vera, sembra l’Assente in questo scorcio del nuovo millennio. Perché a nostro avviso non risiede nel feticismo con cui ci si lega al Pontefice del momento o al beato divenuto mainstream; non nei pellegrinaggi né nelle giornate della gioventù. O meglio, può arridere anche in questo, ma non è nel culto estetizzante o iperemotivo della sensazione intensa che si potrà placare quella sete alla base di ogni fragilità.
E non si comprende bene – ci sia lecito dirlo – perché questa fragilità non debba essere concessa anche ai sacerdoti. è facile additare le loro debolezze, i passi falsi, le insufficienze, come se dimenticassimo che sono uomini come noi. Ci comportiamo come se a noi fosse concesso qualunque sbaglio – perché in fondo segue l’assoluzione – ma non siamo altrettanto clementi verso chi – è vero – deve guidarci lungo la strada della spiritualità, ma deve innanzitutto condurvi sé stesso. E non è un sentiero facile, perché il Volto può offuscarsi per chiunque, in qualunque istante della vita, e allora sì che subentra la sirena della solitudine. Quella che nell’ala ha il piombo e nel rasoio il canto.